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Araquà il mercatino dell'usato, vintage e riusabile
Mercatino vintage usato e riusabile Trieste
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Il tabarro fa la sua comparsa nell’antica Roma e nel corso dei secoli ha conosciuto fogge, colori e tessuti diversi, rimanendo sempre fedele a ciò che lo contraddistingue: Una mantella a forma di grande ruota a caduta libera , taglio del panno a vivo, una sola cucitura e colletto.
Esistono varianti di mantelli sia a ruota che a mezza ruota. Gli alamari, normalmente in corda o cuoio, possono essere anche d’argento per impreziosire l’unica chiusura del mantello.
Viene indossato chiuso buttando un‘estremità sopra la spalla opposta in modo da avvolgerlo intorno al capo. E’ un mantello caldo, che si usa appunto prevalentemente nella stagione invernale anche se si possono raramente trovare anche versioni più leggere per la primavera.
E’ un capo che si ritrova nel tredicesimo secolo, e poi nel Medioevo tra la borghesia mentre nel Rinascimento cade in disuso ma rimane comune tra gli artigiani e nel mondo rurale.
Ritorna in uso nell’Ottocento e durante il fascismo viene considerato elemento d’ispirazione anarchica.
Il cappello, un tempo accessorio imprescindibile d’eleganza, sembrava aver perso di significato negli ultimi anni…in realtà nonostante la sua recente latenza sta riprendendo un posto nel guardaroba degli italiani desiderosi di outfit eleganti ed originali.Immancabili le regole del galateo che ricordiamo per evitare brutte figure e mantenere lo charme che l’accessorio regala a chi lo porta.Gli uomini devono togliere il cappello in tutti i luoghi chiusi, e cosa non da poco, nel momento in cui incontrano una signora. La regola impone almeno un leggero tocco per alzarlo in segno di rispetto, afferrandolo per la sua calotta. Se l’uomo non si ferma può bastare anche un tocco della tesa.Le donne invece possono tenere il cappello al chiuso, in tutte le cerimonie ufficiali, a teatro, al cinema purchè in questi ultimi due casi non sia troppo ingombrante da impedire la visione a chi sta dietro.Diverso è il caso in delle riunioni di famiglia, in ambiente privato, dove anche le donne possono togliere l’elegante copricapo.
Quando presi in mano la tazza delicata, dai profili dorati cercai di immaginare la sua storia.
Tutti mi avevano parlato della magia del vecchio mercatino dell’usato di via Gatteri ed ero emozionata di poter finalmente finalmente constatare di persona la leggenda. Era la prima volta che mettevo piede da Araquà.
Guardai di sottecchi il proprietario che era impegnato ad aggiustare un vecchio lampadario.
C’erano oggetti dappertutto, decine di scarpe su mobili antichi, pile di cappelli su sedie damascate, gli scaffali di fortuna ricavati da vecchie cassette di legno erano pieni zeppi di vasi, statue, vecchi orologi e bamboline di porcellana dallo sguardo assente.
Ricordai qualcosa a proposito del riciclo intelligente… sicuramente tutto nel negozio testimoniava il fascino di un passato che si riproponeva nella sua inalterata bellezza.
Scesi le scale di legno, accompagnata da un piccolo scricchiolio , e rimasi attonita per l’enorme quantità di abiti appesi su numerose file di stendini, sulle ante aperte degli armadi, a penzoloni dal soffitto… tutti sembravano riposare come artisti nel camerino, svuotati dalla fatica dopo una lunga rappresentazione
Fui attratta da una stola buttata su un divano di velluto porpora… sembrava un visone ed era di un colore mai visto, un morbido e chiaro grigio perlato …
Tutto molto affascinante pensai… ma da qui a definirlo addirittura magico ne corre…. forse mi aspettavo che uscisse Harry Potter da qualche scantinato? Sorrisi alla mia fanciullesca creduloneria.
Afferrai la pelliccia avvolgendomela alle spalle e guardai la mia immagine riflessa nello specchio.
Sobbalzai portando le mani alla bocca trattenendo un grido di paura…
Al posto della mia rassicurante immagine, una donna bellissima, regale ed altera mi stava fissando in silenzio. Indossava la pelliccia di ermellino che avevo addosso e mi stava guardando con il distacco di chi sa quello che tu non puoi conoscere. Ricordai vecchi rotocalchi…era Dovima la famosissima modella degli anni 50.
Era la donna più attraente ed elegante che avessi mai visto in vita mia. Mi girai verso la porta per chiamare il proprietario che era sempre intento al suo lampadario… feci per gridare ma non mi uscì la voce… allora tornai a rivolgermi allo specchio nel tentativo di procedere ad una mediazione con quello che credevo essere un fantasma.
Ma l’immagine era sparita e vedevo solo me, abbracciata all’ermellino con l’espressione del coniglio che stava attraversando la strada….
Mi guardai attorno ed espirando lasciai ricadere la stola sul divano. Continuai ad perlustrare con gli occhi il magazzino, ma ogni cosa attorno a me era immobile come quando ero entrata.
Uscii di fretta salutando distrattamente il proprietario che mi fermò con un cenno del capo.
“Le serve aiuto signorina?”
I suoi occhi sorridevano in contrasto con l’inespressiva fermezza del resto del volto.
Rimasi senza parole ma scossi il capo.
“Bene, allora le auguro una buona giornata” lo fissai per capire se aveva intuito qualcosa della scena nel magazzino sottostante ed un brivido mi percorse la schiena mentre l’uomo mi saluto’ con il suo sorriso piatto.
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Le nostre mensole
“Buonasera avete forse delle scarpe da ballo?”
Il proprietario di Araqua’, intento a lucidare il solito ottone, alzò il sopracciglio senza spostare lo sguardo dal maniglione navale poggiato sul banco.
“Che tipo di ballo?” la voce era gentile ma annoiata. Era chiaro che l’argomento non lo interessava.
“Tango..”
Lo spilungone dalla barba brizzolata, usci’ da dietro il banco con un mezzo salto e mi invitò a seguirlo nel magazzino, al piano inferiore. Quest’ultimo era molto più grande del negozio ed indubbiamente più disordinato. Sentivo il peso dei tanti oggetti appoggiati alla rinfusa ovunque. Perlustrai con lo sguardo il deposito traboccante. All’entrata, subito alla mia destra, individuai ciò che stavo cercando. Due file di scaffali ricoperti di scarpe da donna, le une accanto alle altre, a due a due, divise per stagionalità. Stivali scamosciati con pesanti fibbie argentate, stivali di lacca nera con tacchi a spillo, polacchine in morbida pelle, scarpe decolletè di varia misura, sandali di firme famose, sabot leggeri a colori sgargianti… e scarpe di tango… Mi avvicinai a quest’ultime, e ne sollevai un paio di raso turchese con lunghi lacci alle caviglie. Erano nuove e sgargianti promesse per le mie serate.
“Si quelle sono appena arrivate e sono intatte, mai usate” sospirò l’uomo dalla barba grigia che mi parve essere, d’aspetto più gradevole di quanto mi era sembrato a prima vista.
“E queste altre invece, sono state usate da una giovane ballerina, proprio nella serata in cui l’ospite d’onore della milonga, il grande Gavito la invitò a ballare facendola conoscere al pubblico del tango”
Rimasi affascinata da quella spiegazione, e con la bocca aperta, fissai le mie mani. Una conteneva una scarpa di pelle rossa, dal tacco medio leggermente bombato ed un semplice cinturino alla caviglia e l’altra quella azzurra dal tacco sottile, argentato, di tutt’altro effetto.
Entrambe erano del mio numero. Il proprietario ritenne che il tempo datomi a disposizione era già scaduto e risalì le scale del magazzino invitandomi a provarle per decidere.
Cercare un punto d’appoggio per sedermi, si rivelò un’impresa. Specchiere, credenze, comodini ed abiti di ogni genere erano ammassati dappertutto. Adocchiai una poltroncina damascata d’altri tempi e mi sedetti sul bordo. Provai subito le scarpe turchesi … Erano molto eleganti ma facevo una certa fatica a muovermi in punta di piedi sul tacco altissimo.
Quando poi allacciai le scarpe rosse, sentii una sensazione di piacere, il piede che scivolava nella scarpa, con sollievo, adattandosi comodamente. Ero ancora a testa bassa, mentre stavo allacciando il cinturino alla caviglia quando vidi spuntare due punte di scarpe maschili proprio davanti al mio naso. Trattenni il fiato poiché ero certa che non fossero i piedi del proprietario di Araqua’. Alzai lentamente lo sguardo risalendo su un completo gessato retrò dal taglio perfetto. Smisi di respirare quando vidi il maestro dei maestri Gavito davanti a me, diritto e sensuale, come un felino brunito.
Non riuscii a gridare nemmeno quando allungò la mano verso di me. Un fantasma non può farmi nulla pensai all’impazzata… tutti i ricordi di storie fantasy m’invasero la testa con terrore… ma il maestro mi ignorò e raccolse la mano di una giovane donna bellissima dai lunghi capelli castani che stava avanzando verso di lui, passandomi accanto indifferente, come se il fantasma fossi io.
Iniziarono a ballare, lentamente, lui la teneva stretta in un abbraccio indiscutibile, dove era chiaro che era lui a stabilire i ritmi ed i passi. Lei lo seguiva, abbandonata in quella magia, dove i piedi si mescolavano all’anima, e gli sguardi non si incrociavano. La sentivo trattenere il respiro… assieme a me che non riuscivo a respirare dall’emozione. I piedi di lei accompagnavano i passi di Gavito, formando dei morbidi disegni nell’aria, tutto era perfetto, ogni movimento era all’unisono, naturalmente elegante e sensuale.
Ero certa di sentire la musica di Piazzolla suonare nel magazzino, ero affascinata ed impaurita allo stesso tempo. La musica ed il ballo durò per un tempo indefinito quando realizzai l’irragionevolezza della cosa. Sussultai e cercai aiuto con lo sguardo dal sottoscala… dove era finito il proprietario? Ero incapace di emettere suoni…
“Allora ha scelto?” Ringraziai Dio, mi aveva sentito in qualche modo… per fortuna la telepatia esiste… l’uomo aveva fatto capolino sulla scala.
“Senta…Senta…guardi là!!! “ dissi saltando in piedi verso di lui ed indicando il fondo dello stanzone…
Vidi l’uomo scendere di qualche gradino, guardarsi attorno e grattarsi la barba…
“Siiiiii ? Cosa devo vedere?”
Mi girai di scatto verso Gavito e non vidi più nulla. I due ballerini erano scomparsi e così la musica.
Mi sentii girare la testa, con le scarpe e le guance rosse balbettai qualche parola di scusa e per uscire dall’imbarazzo soffiai di getto:
“ Prendo queste” con il cuore in subbuglio.
L’uomo alzò le sopracciglia. Beate donne, non fila mai tutto liscio con loro, girò sui tacchi e tornò al bancone.
Tolsi le scarpe prima di risalire e gettai un’ultima occhiata al magazzino sottostante ma ogni cosa era immobile e leggermente impolverata.
Nata in Francia nel 1883, Gabrielle Bonheur Chanel, chiamata “Coco”, ebbe una infanzia molto umile e triste, trascorsa in gran parte in un orfanotrofio, dove imparò a cucire e tagliare, per poi diventare una delle più acclamate creatrici di moda del secolo scorso. Sembra che che siano state le vesti delle suore dell’orfanatrofio, candide e nere, a ispirare i tagli quasi monacali e lineari delle sue collezioni. Capace con la sua opera di rivoluzionare il concetto di femminilità e di imporsi come figura fondamentale del fashion design e della cultura popolare del XX secolo, fondò la casa di moda che porta il suo nome, Chanel. E’ un’icona di eleganza senza tempo. Insegnò alle donne quella praticità unita ad un’eleganza di uno stile lussuoso nella sobrietà, ma soprattutto personale, che la Belle Epoque aveva sostituito con bustini, corsetti e impalcature per cappelli. La donna “liberata” da Coco si muove agile e disinvolta anche in abito da sera, senza lacci e corpetti: lancia i pantaloni femminili, lo stile alla marinara, il jersey come tessuto nobile e poi le giacche corte, i bottini dorati, le gonne con il punto vita abbassato. Spazia dagli abiti ai gioielli, ai profumi. Nasce nel ’21 il n.5, una sua creatura che non morirà. Si stabilisce al Ritz e ne fa la propria casa. Donna fiera e orgogliosa, conquista il mondo, ma resta sola dentro, irraggiungibile Peter Pan. Firma la sua ultima collezione a metà degli anni Cinquanta, in netto contrasto con l’opulenza della maison Dior
“La moda riflette i tempi in cui si vive, anche se, quando i tempi sono banali, preferiamo dimenticarlo.”
Si congeda con la consueta classe, con accanto la presenza della sola cameriera nel 1971
Il titolare del negozio era un tipo smilzo con la barba grigia, era impossibile attribuirgli un’età ma di certo era sopra la cinquantina ed aveva un aspetto attraente quanto poco cordiale. Era sempre serio anche quando le risposte erano gentili . Mai affettato, era continuamente intento a trafficare attorno a qualcosa, aggiustare un orologio, pulire una vecchia radio, o lucidare qualche ottone. Quando entrai alzò appena gli occhi sopra il bancone per accertarsi della mia presenza.
“Buongiorno” mi disse, e anche quella volta non sorrise.
“Posso dare un’occhiata?”
“Prego siamo qui per questo” rispose soffiando sulla bambolina di un vecchio carillon arruginito.
Abbozzai un mezzo sorriso e guardai verso l’alto. Dal soffitto pendevano appesi ad una corda grezza, un abito da sposa antico, una coperta di pizzo bianco lavorato a mano, degli abiti tirolesi, delle lunghe collane e dei guanti di raso color panna dal pelo morbido attorno ai polsi e leggermente impolverati. Ero stupita dalla quantità di oggetti così diversi tra loro che coesistevano con una naturalezza inusuale rispetto ad ogni casa o negozio che mai avessi visto prima.
“ E queste cosa sono?” chiesi indicando dei bastoncini di legno chiaro intarsiati a mano.
“Bacchette magiche” era evidente dal suo tono che quel carillon non voleva saperne di girare.
Inarcai le sopracciglia incredula. Ne avevo sempre desiderata una da bambina. Qualcosa che facesse esaudire i miei desideri… o che mi rendesse capace di volare… Mi misi a ridere. Chi diavolo compra una bacchetta magica oggi? Cosa potrei chiedere se avessi la facoltà di far accadere le cose? Il sorriso mi si spense sulle labbra pensando a Giorgio… non lo avevo più visto da quando era partito per l’università a Milano… avevo saputo che si era laureato ed era diventato medico… Il nostro era stato un feeling intenso quanto incompiuto. Lo avevo conosciuto la settimana prima della sua partenza.
“Ma si, è un oggetto simpatico” dissi rivolgendomi al gestore. Ne ricavai un sorriso piatto ed un sacchettino di plastica ecologica riutilizzabile con dentro la mia bacchetta magica in cambio di 20 euro. Quando uscii dal negozio mi sentii proprio una sciocca. Tra tutte le cose che avrei potuto comprare, prima fra tutte quella collana a sfumature di verde avevo acquistato l’ennesimo oggetto inutile da mettere nel cassetto della mia camera.
Uscii ed una folata di vento mi colpì in pieno viso scompigliandomi i capelli, il cappello di feltro si staccò dalla testa volando in aria, mi girai di scatto per afferrarlo inciampando sul gradino antistante il negozio, persi l’equilibrio e mi sentii cadere verso il basso. Una forte stretta fermò la mia caduta. Mi staccai da quell’abbraccio estraneo imbarazzata, avevo sentito la bacchetta cadere e cercando di individuarla a terra, balbettai qualche parola di scusa per l’accaduto senza staccare lo sguardo dalla strada…
“Marina ma sei proprio tu?”
Quando mi sentii chiamare per nome, sgranai gli occhi per lo stupore. Era Giorgio che mi stava fissando sbigottito almeno quanto me.
“Ma cosa ci fai qua? Non eri a Milano?” farfugliai.
“Sono tornato per lavoro. Sono stato assunto per un anno in una clinica qui a Trieste. Forse la conosci… si chiama…” E mentre mi raccontava i dettagli del nuovo impiego e mi invitava a bere un caffè pensai che il tutto non era che un’assurda coincidenza e mi girai verso la vetrina di Araquà. Nascosto dagli innumerevoli oggetti appesi, Intravidi la sagoma del proprietario che mi stava fissando dietro ai vetri con il suo sorriso piatto come una sfinge e mi strinsi nel cappotto con un brivido.
Quando entrai nel negozio, il legno scricchiolò e mi sembrò volesse avvisare tutti i presenti del mio passaggio. Avevo già sentito parlare di Araqua’ ma non c’ero mai stato prima. Avevo sentito diverse storie sul negozio e sulla sua magia ma non mi sono mai piaciuti gli sbalordimenti facili. La mia attenzione fu attratta immediatamente dal vecchio giradischi che stava suonando una canzone di Billie Holiday. La puntina accompagnava con un ticchettio sconnesso i solchi del vinile dal vivo della cantante e l’atmosfera polverosa sembrò riportarmi indietro nel tempo.
Presi in mano un disco tra i tanti vinili allineati nelle cassette di verdura adibite a scaffali . Benny Goodman sembrò salutarmi con il suo sorriso simpatico tra il papillon ed il clarinetto. Guardai il cassiere e tesi il disco..
“Prendo questo… “ dissi…
“Mi dispiace” rispose..con voce distratta ma gentile “quei dischi sono tutti prenotati…”
“Oh .. capisco”,
riposi il disco nello scaffale di fortuna e volsi lo sguardo alle centinaia di cose appoggiate ovunque.. avrei voluto acquistare qualcosa ma non sapevo cosa… avrei voluto portare con me quella magia del tempo passato… così me ne uscii intimidito dalla quantità di oggetti e frastornato dalla sensazione di lasciare qualcosa di particolare, un sentire ovattato …
Mi accadde proprio quella sera di uscire dal cinema posto all’angolo dello stesso stabile del negozio dove ero stato nel pomeriggio.
Era appena finita l’ultima rappresentazione di un film abbastanza noioso, e allungai di qualche metro il percorso per arrivare alla macchina, proprio per passare davanti alla vetrina di Araqua’. Il negozio non era illuminato all’interno ma vi filtrava la luce del lampione della strada, evidenziando i contorni e le ombre degli oggetti.
Accarezzai con lo sguardo le bambole di ceramica, le bottiglie e le tazze in ceramica… “Domani acquisto quel cappello Borsalino” pensai e girai le spalle per andarmene quando vidi un’ombra scendere le scale.. “Che ci fa il titolare al buio?, Forse è saltata la luce..”
Vidi l’ombra nel buio portare alla bocca un clarinetto, distinsi le forma dell’uomo in frac e papillon e smisi di respirare. Saltai sulla grata del negozio per vedere meglio, feci rumore e l’ombra si girò verso di me smettendo di suonare.
Sgranai gli occhi, ero certo di avere visto Benny sorridermi come nella copertina del disco. Fu un attimo irripetibile, cercai di allungare la mano attraverso la grata… ma ogni cosa era svanita… Rimasi là con il cuore che batteva all’impazzata… Quando mi calmai, riguardai il vecchio giradischi fermo ed ogni cosa mi parve immobile.
(Araquà il Mercatino dell’usato)