Quando presi in mano la tazza delicata, dai profili dorati cercai di immaginare la sua storia.
Tutti mi avevano parlato della magia del vecchio mercatino dell’usato di via Gatteri ed ero emozionata di poter finalmente finalmente constatare di persona la leggenda. Era la prima volta che mettevo piede da Araquà.
Guardai di sottecchi il proprietario che era impegnato ad aggiustare un vecchio lampadario.
C’erano oggetti dappertutto, decine di scarpe su mobili antichi, pile di cappelli su sedie damascate, gli scaffali di fortuna ricavati da vecchie cassette di legno erano pieni zeppi di vasi, statue, vecchi orologi e bamboline di porcellana dallo sguardo assente.
Ricordai qualcosa a proposito del riciclo intelligente… sicuramente tutto nel negozio testimoniava il fascino di un passato che si riproponeva nella sua inalterata bellezza.
Scesi le scale di legno, accompagnata da un piccolo scricchiolio , e rimasi attonita per l’enorme quantità di abiti appesi su numerose file di stendini, sulle ante aperte degli armadi, a penzoloni dal soffitto… tutti sembravano riposare come artisti nel camerino, svuotati dalla fatica dopo una lunga rappresentazione
Fui attratta da una stola buttata su un divano di velluto porpora… sembrava un visone ed era di un colore mai visto, un morbido e chiaro grigio perlato …
Tutto molto affascinante pensai… ma da qui a definirlo addirittura magico ne corre…. forse mi aspettavo che uscisse Harry Potter da qualche scantinato? Sorrisi alla mia fanciullesca creduloneria.
Afferrai la pelliccia avvolgendomela alle spalle e guardai la mia immagine riflessa nello specchio.
Sobbalzai portando le mani alla bocca trattenendo un grido di paura…
Al posto della mia rassicurante immagine, una donna bellissima, regale ed altera mi stava fissando in silenzio. Indossava la pelliccia di ermellino che avevo addosso e mi stava guardando con il distacco di chi sa quello che tu non puoi conoscere. Ricordai vecchi rotocalchi…era Dovima la famosissima modella degli anni 50.
Era la donna più attraente ed elegante che avessi mai visto in vita mia. Mi girai verso la porta per chiamare il proprietario che era sempre intento al suo lampadario… feci per gridare ma non mi uscì la voce… allora tornai a rivolgermi allo specchio nel tentativo di procedere ad una mediazione con quello che credevo essere un fantasma.
Ma l’immagine era sparita e vedevo solo me, abbracciata all’ermellino con l’espressione del coniglio che stava attraversando la strada….
Mi guardai attorno ed espirando lasciai ricadere la stola sul divano. Continuai ad perlustrare con gli occhi il magazzino, ma ogni cosa attorno a me era immobile come quando ero entrata.
Uscii di fretta salutando distrattamente il proprietario che mi fermò con un cenno del capo.
“Le serve aiuto signorina?”
I suoi occhi sorridevano in contrasto con l’inespressiva fermezza del resto del volto.
Rimasi senza parole ma scossi il capo.
“Bene, allora le auguro una buona giornata” lo fissai per capire se aveva intuito qualcosa della scena nel magazzino sottostante ed un brivido mi percorse la schiena mentre l’uomo mi saluto’ con il suo sorriso piatto.
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LA MAGIA DI ARAQUA’
Il titolare del negozio era un tipo smilzo con la barba grigia, era impossibile attribuirgli un’età ma di certo era sopra la cinquantina ed aveva un aspetto attraente quanto poco cordiale. Era sempre serio anche quando le risposte erano gentili . Mai affettato, era continuamente intento a trafficare attorno a qualcosa, aggiustare un orologio, pulire una vecchia radio, o lucidare qualche ottone. Quando entrai alzò appena gli occhi sopra il bancone per accertarsi della mia presenza.
“Buongiorno” mi disse, e anche quella volta non sorrise.
“Posso dare un’occhiata?”
“Prego siamo qui per questo” rispose soffiando sulla bambolina di un vecchio carillon arruginito.
Abbozzai un mezzo sorriso e guardai verso l’alto. Dal soffitto pendevano appesi ad una corda grezza, un abito da sposa antico, una coperta di pizzo bianco lavorato a mano, degli abiti tirolesi, delle lunghe collane e dei guanti di raso color panna dal pelo morbido attorno ai polsi e leggermente impolverati. Ero stupita dalla quantità di oggetti così diversi tra loro che coesistevano con una naturalezza inusuale rispetto ad ogni casa o negozio che mai avessi visto prima.
“ E queste cosa sono?” chiesi indicando dei bastoncini di legno chiaro intarsiati a mano.
“Bacchette magiche” era evidente dal suo tono che quel carillon non voleva saperne di girare.
Inarcai le sopracciglia incredula. Ne avevo sempre desiderata una da bambina. Qualcosa che facesse esaudire i miei desideri… o che mi rendesse capace di volare… Mi misi a ridere. Chi diavolo compra una bacchetta magica oggi? Cosa potrei chiedere se avessi la facoltà di far accadere le cose? Il sorriso mi si spense sulle labbra pensando a Giorgio… non lo avevo più visto da quando era partito per l’università a Milano… avevo saputo che si era laureato ed era diventato medico… Il nostro era stato un feeling intenso quanto incompiuto. Lo avevo conosciuto la settimana prima della sua partenza.
“Ma si, è un oggetto simpatico” dissi rivolgendomi al gestore. Ne ricavai un sorriso piatto ed un sacchettino di plastica ecologica riutilizzabile con dentro la mia bacchetta magica in cambio di 20 euro. Quando uscii dal negozio mi sentii proprio una sciocca. Tra tutte le cose che avrei potuto comprare, prima fra tutte quella collana a sfumature di verde avevo acquistato l’ennesimo oggetto inutile da mettere nel cassetto della mia camera.
Uscii ed una folata di vento mi colpì in pieno viso scompigliandomi i capelli, il cappello di feltro si staccò dalla testa volando in aria, mi girai di scatto per afferrarlo inciampando sul gradino antistante il negozio, persi l’equilibrio e mi sentii cadere verso il basso. Una forte stretta fermò la mia caduta. Mi staccai da quell’abbraccio estraneo imbarazzata, avevo sentito la bacchetta cadere e cercando di individuarla a terra, balbettai qualche parola di scusa per l’accaduto senza staccare lo sguardo dalla strada…
“Marina ma sei proprio tu?”
Quando mi sentii chiamare per nome, sgranai gli occhi per lo stupore. Era Giorgio che mi stava fissando sbigottito almeno quanto me.
“Ma cosa ci fai qua? Non eri a Milano?” farfugliai.
“Sono tornato per lavoro. Sono stato assunto per un anno in una clinica qui a Trieste. Forse la conosci… si chiama…” E mentre mi raccontava i dettagli del nuovo impiego e mi invitava a bere un caffè pensai che il tutto non era che un’assurda coincidenza e mi girai verso la vetrina di Araquà. Nascosto dagli innumerevoli oggetti appesi, Intravidi la sagoma del proprietario che mi stava fissando dietro ai vetri con il suo sorriso piatto come una sfinge e mi strinsi nel cappotto con un brivido.
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